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Una gita alla Caverna di Monte Cucco, due secoli e mezzo fa : Buio Verticale Gruppo Speleologico C.A.I. Gubbio
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20 agosto 1922

Così titola la pubblicazione edita per volere del March. Cav. Costantino Benigni Olivieri che volle dedicarla alla Società Escursionisti di Fabriano, al suo Presidente Onorario On. Comm. Giambattista Miliani e al Presidente effettivo Prof. Nestore Zacchilli, in occasione della posa in opera della scala di accesso alla Grotta di Monte Cucco.

Il racconto, recita l’avvertenza, è la descrizione d’una gita alla Caverna di Monte Cucco, fatta da 14 fabrianesi il 28 luglio 1670, che fu soggetto di un discorso tenuto dal Dottor Tommaso Agostino Benigni, uno dei gitanti, l’anno seguente all’Accademia dei Disuniti di cui era membro.

Riportiamo fedelmente di seguito la versione integrale del discorso pubblicato assieme ad alcune bellissime foto dell’epoca dalla Premiata Tipografia Economica di Fabriano.

La descrizione, seppur imprecisa e ampollosa in alcuni tratti, è la prima finora conosciuta riguardante la grotta e ci dà interessanti indizi, non solo sulle conoscenze scientifiche del tempo, ma anche sulla storia delle esplorazioni della grotta stessa.

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Intraprendo per la prima volta, Ill.mi e Rev.mi Signori, pubblicamente a discorrere, quando per mia reputazione dovrei più che in altro tempo trascorso continuare a tacere. Che maggior sproposito potevo questa sera commettere, quanto che accingermi a discorrere di tenebre, simbolo di lutto, in tempo che gli animi di ciascuno trovansi immersi nelle carnevalesche allegrie? Non vi ha dubbio che ben conosco l’errore: ma però in tempo, che non m’è permesso correggerlo, avvenga che altra eloquenza che la mia, ed altra materia che la presente, dovrebbesi per sodisfare alla delicatezza dei vostri orecchi: onde supplico istantemente le SS.VV. che si degnino con la solita gentilezza ricevere la presente composizione, non come rigoroso discorso accademico, ma bensì come una semplice narrativa vertente sopra la grotta di Monte Cucco, da alcuni miei compagni e da me ultimamente veduta,  in cui altro oggetto non mi propongo che la verità, quanto può esser nuda: vedrassi anco la mia relazione spogliata di ogni retorico abbigliamento. So che il soggetto per se stesso è ordinario, benché curioso; ma l’aver veduto che il Kyrcher, riguardevole soggetto dei nostri tempi, nel suo volume De Mondo subterraneo non ha sdegnato iscrivervi ragguaglio di un certo Monte Cavo situato nel Lazio e perché le circostanze di questa grotta non le suppongo inferiori a quelle del prenominato Monte, mi fa credere che, se non verrà applaudito, almeno non sarà deriso il discorso presente. Si permetta dunque anco a me dalla loro generosità il discorrer sopra simil materia e condonisi la bassezza dello stile cagionata e dalla sterilità del soggetto e dall’insufficienza del novello dicitore.

Un picciolo manoscritto pervenuto, non è gran tempo, alle mie mani, in cui si conteneva compendioso ragguaglio della grotta di Monte Cucco, seppe destare in me la curiosità di vedere se veramente era vero tutto ciò che in quello ammiravo descritto, e benché il non sentire che grotta tanto prodigiosa fosse da persona visitata mi facesse dubitare che questa potesse essere un castello in aria di mente oziosa, ad ogni modo, considerando che, si come la vista di un naviglio sottoposto al naufragio fa bene spesso distogliere la volontà di navigare, così anco credei che li pericoli, li quali s’incontrano nel portarsi in detta grotta fussero motivo sufficiente a frastornare a molti l’andata. Ma perché l’umana natura, al parere del filosofo, maggiormente desiderava quelle cose che sono più difficili a conseguirsi, risolvei ad onta di qualunque difficoltà tentare animosamente l’ingresso di essa.

Conferita dunque questa mia deliberazione ad alcuni miei amici e pregatili a correre meco la medesima sorte, trovai in tutti gran repugnanza nell’esponersi all’azzardo, imperocché quel sentire che si metteva a rischio la vita era un obice troppo potente per distogliere anco li più coraggiosi dall’impresa. Onde dopo continuata ambiguità fomentata da reiterati discorsi, che da noi si facevano circa l’andata, fu convenuto di fare li preparamenti necessari per l’entrata nella grotta, con tale condizione però, che, quando arrivati alla bocca di essa fosse considerato rilevante il pericolo, allora si dovesse desistere dall’impresa, e cedere affatto alla forza superiore. Con questo proponimento drizzammo il nostro viaggio alla volta di Monte Cucco, e dopo ben quattro miglia di fatigosa salita, ora di iscoscesi scarpati, ed ora di orrende selve, ci conducessimo finalmente all’elevata cima di esso, nella quale pervenuti giudicammo sovrabbondantemente li passati disastri compensati dalla veduta sì dilettevole che allora a gli occhi nostri si offerse. Né qui, Sigg.ri, vorrei dir tanto che avesse dell’incredibile, né pregiudicare alla verità con dir meno: dirò solo che, non essendo l’aria di caligine ottenebrata, dalla parte orientale l’Adriatico, e dalla occidentale il Mediterraneo si scorge: né ciò paia strano, imperocché, siccome questo monte all’uno ed all’altro mare le acque, quali racchiude nel suo concavo seno, tributa, si come nel fine del discorso dimostrerò, così è  ragione che goda di ambedui loro la veduta.

Onde non è meraviglia, se quegli, che nella sommità di esso trattiensi, gli altri monti in colline e le colline in pianure rimira cangiarsi.

Ma poiché fu sazio l’occhio di vagar fra tanti oggetti, unitamente cominciammo a calare verso quella parte del monte ove s’apre la spaventevole bocca, che conduce entro la cavità di esso.

Avrei molto che fare, Signori, se volessi descrivervi il pericolo a cui ci esponemmo in fare questa calata la quale dura per lo spazio di mezzo miglio.

Ho sbagliato, Ill.mi, dissi calata in cambio di precipizio, avvenga che il detto viaggio si fa sempre costeggiando con grandissimo scomodo ed evidente rischio di precipitare, quale tanto più è imminente, quanto che nel discendere non si trova arboscello e cespuglio a cui la persona si possa raccomandarsi: onde è forza attaccarsi a cert’erba ch’ivi solo la natura produce, detta comunemente falaschio, quale svellendosi sarebbe difficile di non rotolare per quei dirupi, che non sono di pochi passi ma bensì di miglia intiere, e perder la vita, senza rinvenirsi le reliquie del corpo. Confesso ingenuamente che più d’uno di noi spaventati di quegli orrendi dirupi era risoluto retrocedere dall’impresa, asserendo esser pazza temerità mettere in rischio la vita per un curioso capriccio, al quale quando pure ne fosse riuscito il soddisfare con la veduta della grotta, in nulla avrebbe risultato, e poi doversi considerare che la vita dell’uomo non è si vile e indegna, che debba ad un solo pugno di erba raccomandarsi. Ma giacché i più animosi proseguivano, se non ordinatamente, almeno ostinatamente il viaggio rampognando ai timidi il loro poco spirito, operavano si, che per non confessarsi di animo inferiore, gli altri proseguirono benché mal volentieri lo spaventoso sentiero, e così tutti alla fine arrivassimo alla bocca della grotta.

Qui stimerete, Signori, già terminate le maggiori difficoltà e che noi pervenuti in detto luogo facessimo quell’interne allegrezze, solite a farsi da un navigante, che dopo aver solcato lungo tratto di mare tempestoso scopre alla fine il desiato porto. Ma v’ingannate all’ingrosso, poiché, affacciatici a quella spaventevole bocca, tutti attoniti e inorriditi, ritirassimo il piede indietro, non potendo l’occhio soffrire lo sguardo di si orrenda profondità, si che ciascuno sentì irrigarsi la fronte di aggiacciato sudore per l’apprensione del predetto pericolo, senza paragone maggiore delli passati, imperocché, se nel calare dalla cima del monte infino alla bocca n’avea sostenuto qualche poco la terra, nel calarsi dalla bocca al profondo dovea reggerci onninamente una fune. Noi dunque quasi titubanti di entrare ci trattenessimo qualche tempo al di fuori e per dar tempo che scemasse a ciascuno di noi l’intera commozione, causataci dalla vista del precipizio, il che avendo osservato quei che venivan servendoci, altre volte entrati entro la grotta, n’esortarono a deporre il concepito spavento ed a calar francamente giù per il canapo.

Ma poiché la forza dell’esempio di gran lunga all’efficacia dell’esortazioni prevale, quando sentimmo che questi voleano essere li primi a farci la strada, allora si che, diminuito qualche poco il timore, stava ciascuno volentieri attendendo l’esito del primo che calasse, concedendo la precedenza. Ma concedamisi, avanti che più proseguisca, ragguagliare succintamente il sito di quella bocca ove presentemente ci tratteniamo.

Dico dunque che sovrastando a questa, dalla parte superiore, la terra, non si discopre se non all’improvviso e questo subito che arriva in essa la persona; ed io confesso che, se non ero in tempo da persona pratica del luogo avvisato che declinassi dal mio cammino per non precipitare entro la grotta, correvo rischio cadere in essa prima morto che vivo.

Suppongo che questa bocca, come ha tre braccia di diametro per larghezza, così cinquanta ne ha di profondità la calata, e ciò è indubitato, avvenga che il canapo da noi portato per discendere, essendo delle sopradette cinquanta braccia di misura, riuscì piuttosto scarso che abbondante per il bisogno. Né essendovi albero alcuno avanti di questa bocca, è forza attaccare un capo di essa fune ad un cespuglio che solo trovasi vicino, della grossezza di un braccio. Oh pazza curiosità che conduci la vita dell’uomo pendente da un cespuglio! Disposto quanto ho detto, benché dubbiosi se il cespuglio potesse reggerci o no; ecco uno di noi che intrepidamente al ligame attaccandosi viene a poco a poco penzolone discendendo, cambiando alternativamente le mani, e puntando li piedi in certe scavette che trovansi, ma non sempre, giù per la calata, che porgono in verità occasione opportuna e necessaria al respiro.

Gli altri, intenti ad osservare qual fine sortisse questo tale, non altro servivano che a prodigargli l’intrepidezza con dire “nunc animis opus, nunc pectore firmo”. (“ora ci vuole coraggio e saldezza d’animo”)

Se nell’assedio d’una fortezza o città, ad onta de’ pericoli arriva il primo soldato a salir le mura, inalberando in queste glorioso vessillo, desta animo tale nei compagni che a truppe insieme si accingono a seguire il di lui esempio.

Arrivato che fu al basso della grotta il primo di noi, con l’acciaro dura selce percosse per estrarne scintille ed accender la facelle, si come fece, quali (se m’è lecito dire) a guisa di trofeo gloriosamente inalzando, diede manifesto segno a’ compagni di aver felicemente terminata la calata, ed a seguire il di lui esempio animosamente invitolli.

Destò questo successo in tal maniera la volontà di ciascuno, che, se prima non trovavasi chi volesse essere il primo a discendere, ora eravi insorta l’emulazione; né saprei esplicarvi con qual animo, spinti dalla curiosità  di vedere cose insolite, calavamo per quella profondità, a tal segno che tre o quattro in una volta andavamo giù per la fune; se pure questo non tanto procedeva perché ciascuno sdegnava restare per ultimo, quanto che perché supponeva arrivato al basso il precedente, quale per anco non avea fatto la metà della calata; il che serve per autenticare questa profondità, che superava di gran lunga la nostra aspettativa. Ma quanto a questa parte dico essere malissimo fatto a calare più di uno alla volta, avvenga che potrebbesi stuccare la fune, o svellersi il caspo al quale ella è attaccata che non è più che della grossezza d’un braccio come ho detto; o pure ( il che succeder si vede) distaccarsi le scaglie delle scavette, nelle quali li piedi si puntano nel discendere e nell’ascendere, e se nel rovinare per quella profondità chi sotto segue il viaggio, danno non ordinario causare potrebbe.

Né voglio tralasciare soggiungere, che, riguardandosi dalla bocca al profondo della calata, che nel principio perpendicolare, ma nel rimanente essere a scarpa si vede, apparisce un uomo di ben mediocre statura, si come fu notato dalli ultimi che calavano, ed un  mio compagno nel principio che cominciava a discendere risguardando fortuitamente nel basso, e spaventato di profondità sì considerevole, gridò ad alta voce a’ compagni laggiù pervenuti , che o smorzassero le torce o le sottraessero alla sua vista.

Ma ecco alla fine da noi tutti terminata felicemente la calata, e nel principio di questa grotta: benché pure di troppo inoltrato mi sia col discorrere. Ora attenti, Sigg.ri, perché adesso viene il tempo d’inarcare per istupore le ciglia. Arrivata che la persona è al basso, trova un poco di platea, a mano destra della quale gli si presentano due piccoli archi, che entrandosi nell’uno si riesce nell’altro dopo che si è compito breve rivolgimento in figura di grotticella; nella quale, per esservi poco o niente da considerare, ci bastarà averne fatta semplicemente menzione. A mano sinistra poi della sopradetta platea vedonsi al primo incontro tre altri archi, ciacheduno dei quali sarà alto 12 in 15 cubiti e largo 7 in 8, in due delli quali per non potersi continuare gran cosa il viaggio, sarà ben che superficialmente consideratili ci appigliamo al terzo quale è il primo a trovarsi a man sinistra, finito che si è il discendere.

Entrati dunque che fussimo in detto arco, continuassimo lungo tratto a caminare per una strada assai ampla, a man sinistra della quale per la prima cosa che si vede si è un Trono, o Tribunale che vogliam dire, indi arrivasi in una stanza di grandezza non ordinaria e trovasi una tavola composta, m’imagino, di tartaro, ed all’intorno di questa (buon principio per mia fé) vedonsi alcune cose rotonde che rassembrano come piatti coperti, e dopo aver quivi ciascuno di noi pasciuta sovrabbondantemente la vista, seguitassimo l’incominciato viaggio. Signori se mi negate li principi del discorso attribuendo a ciance quanto ora dico, mi converrà tacere.

Sospendete vi prego il giudizio, e rattenete le risa, che vedo sin ora principiate, delle quali quando pure far mi vogliate meritevole, sarà il tempo di farlo un poco più in qua, che dirò cose onninamente incredibili. Dopo che si è veduto quanto ho detto, proseguendosi il cammino, arrivasi in un andito della grandezza di un salone, o per dir meglio di un tempio, con la volta assai alta, quivi intorno alla pariete vedesi una moltitudine di pietre spugnose o massicci di marmo che chiamar vogliamo (per nome di marmo intendo nel presente discorso masse di tartaro o di sasso, che per esser candido o risplendente giudicherebbe ognuno esser di sostanza marmorea) li quali massicci rappresentano diverse figure imperfette. Si che posso dire sin d’ora esser questa grotta quasi uno di quei palazzi incantati con sotterranei ravvolgimenti a bello studio inventati da cervelli fantastici de’ romanzi: ma lasciatemi proseguire, perché farò vedervi non abbia saputo tanto inventare un poeta o fingere un romanzo, che non abbia da vantaggio prodotto quasi per ischerzo nelle viscere della terra l’onnipotenza di Dio. Dico inoltre che di qui proseguendosi avanti il cammino, arrivasi in amdito più grande con la volta a guisa di una cupola benissimo formata, e, contiguo a questa vedesi anco un altro andito più vasto nel quale immediatamente si arriva, che per descriverlo posso dirvi di questo con Virgilio: “Spelunca alta fuit, vastonque immanis hiatu” (“Era un’alta spelonca, la cui bocca fin nel baratro aperta, ampia vorago Facea”) il che può dirsi medesimamente di altri anditi a guisa di gran sale, dirò più a guisa di tempi; dissi poco: a guisa di piazze, che successivamente si trovano, delle quali non so il numero di lunghezza ed altezza si esorbitante che può dirsi ciascuna di esse esser sufficiente a formare una gran grotta. Chi ha veduto e vedrà questa grotta, con tutto che vogli avvilirla, non mi potrà negare non essere meravigliosa per queste vastità ed ampiezze che si vedono. Ma la meraviglia si accresce nel veder quivi d’ogn’intorno alle pareti infinità delli sopraddetti massicci e pietre spugnose, varie e diverse cose imperfettamente rappresentanti: ed in più luoghi di questi anditi vedessimo scolpiti in diverse lapidi molti nomi, cognomi e patrie di quelli che, spinti dalla curiosità, sono in detta grotta discesi. Ma se in voi, che più benignamente m’ascoltate, destati alto stupore in sentire solo il racconto di tali cose, quello n’immaginate che fusse il mio e de’ miei compagni insieme, che presenti ammiravamo ed eravamo nelle predette meraviglie. Lo giuro che per la veduta di cose così strane camminavamo per questa concavità quasi storditi ed insensati.

Infatti o credevamo sognare o pure per magiche note essere stati in detto luogo trasportati. Quanto poi alle cupole o volte delli sopradetti portici, anditi, piazze o spazi che vogliasi dire, vedonsi alcune di esse così elevate che uguagliano, secondo il giudizio da noi tutti formato, altissime torri, avvenga che la nostra vista appena vi arrivava; né mi si dica che quell’oscurità metteva obice alla potenza visiva, poiché soggiungerò che ciascuno di noi portava là dentro una fiaccola accesa; e siccome eravamo quattordici persone di numero, così erano altre e tante le facelle che ardevano.

Compito che s’è mezzo miglio in circa di cammino, non continua la strada così bene adagiata, si come è stata sin ora; posciaché nel mezzo di essa vedesi quantità delli sopraddetti massicci di marmo sovraposti, di modo tale che fa bisogno, a chi desidera avanti proseguire, ascendere sopra li medesimi dei quali alcuni sono piccioli, ed altri si smisurati, che a vederli desta stupore non ordinario; e questi cumoli di massicci molti se n’incontravano di mezzo alla strada, quali in diverso tempo possono credersi distaccati dalle volte, e questo è un pericolo tra gli altri, che rende timido e riguardoso chiunque per la grotta camina, mentre può essere fracassato, si accidit in punto (se ci s’incontra), da quella massa di sassi, che da quelle cupole così elevate di quando in quando creder mi giova si svellino. E questo lo prova Francesco Santiorgi da Sassoferrato; in ragguaglio dice che, quando si arriva in una colonnetta, ci vuole cinque passi di corda per discendere, e noi facessimo senza questo aiuto. Se lor Sig.ri entro la grotta ritrovati si fossero, avrebbero veduto ciascuno di noi emulare il compagno nel ritrovare diverse figure curiose ed avrebbero osservato uno di noi talora all’altro dimostrare una statua, indi un altro additare al compagno un fogliame, altro in altro luogo invitare a vedere un mascherone, di qui sentivasi chi aveva trovato una guglia, di là miravasi chi riguardava un intaglio: e perché so di procurare le risa, tralascio il racconto di cose più meravigliose: onde taccio che in qualche luogo offrivasi al vostro incontro una donna col capo rivolto, altrove un profeta col libro in mano, qui un massiccio di tartaro rassembrava un leone, lì un altro somigliava un deposito e tant’altre cose curiose, che a descriverle tutte minutamente converrebbe portarsi là dentro un volume con penna e calamaio ed ivi dimorare lo spazio di più giorni, se dal freddo e dall’umidità insieme venisse protetto. A veder tali cose non si ha d’andare sotto l’artico o l’antartico polo, ma bensì in un monte situato in quella riviera d’Appennini, che dividono la Marca dall’Umbria, e lontano da Fabriano non più di nove miglia, a cui, tutto che sia difficile l’accesso, non è però impossibile, potendo chiunque dubita esser falso ciò che da me è stato detto, portarvisi a sua voglia e chiarirsi del vero. Ma perché so che il più delle volte riesce vana l’efficacia de’ sillogismi, che con la forza loro tentano persuadere la volontà all’assenso di queste cose, che generalmente son lontane dal vero; quindi è che, avanti più proseguisca il racconto presente, vo’ dimostrare come quando siano state prodotte queste diversità di figure in detti massicci; e se non potrò dalle vostre menti isminuire i concepiti stupori, almeno spero che siasi per dar fede a quanto è stato da me detto. Vedesi giornalmente l’esperienza del proverbio: “ Gutta cavat lapidem non vi sed saepe cadendo” (“La goccia scava la pietra, non con la forza, ma con il cadere spesso”).

Dico intanto che d’ogn’intorno alle pareti di questa grotta vedesi dall’alto l’acqua discendere ora con moto continuato, ora con stille interrotte: e siccome è proprio dell’acqua lasciare ovunque passa i vestigi della sua potenza, così non dee recar meraviglia se con il suo corso giù per li detti massicci quivi una figura, altrove un’altra ne formi, cooperandovi in ciò m’imagino anco il freddo che costringe in diverse forme detta materia, secondo che in essa trova le disposizioni; e sa ciascuno che, se l’acqua cadesse giù per la colonna con moto ininterrotto o continuato che fusse, lascerebbe in essa segni che sembrerebbero artificiali lavori, e quella similitudine può adattarsi anco all’altre cose sopradette, né tralascio il dire che in molti luoghi di questa grotta sonovi fontane sorgenti e ruscelletti di acqua assai limpida e cristallina, e ciò fu causa che ben spesso bagnavamoci entrando in essa, avvenga che dall’istess’acqua non distinguevasi il pavimento che da per tutto bianco come l’istesso marmo apparisce: e di qui si può ricavare che la dimora, benché lunga si facci in questa grotta, non apporta quel tedio ed orrore solito causarsi ne’ luoghi sotterranei per il più ombrosi, fetenti, e da animali che da’ raggi del sole sottraggonsi abitati: quali imperfezioni non possono dirsi di questa grotta. Alla metà della quale arrivata che è la persona (se mal non mi ricordo) trova la strada solamente riempita da un cumolo di grossi massicci, che non lasciasi maggior apertura a chi vuole avanti proseguire di quella sarebbe una bocca di forno, e quivi è necessario stendersi bocconi in terra e passare con molta difficoltà, quale (siasi per qual causa si vuole) provasi assai maggiore nel ripassarvi al ritorno, ed in prova di ciò fommi lecito raccontare alla sfuggita un curioso incidente in questo stretto successo. Accadde dunque nel ritorno che un nostro camerata, persona corpulenta, mentre a viva forza tentò il ripassaggio per detto buco, rimase con ridicolo spettacolo nel mezzo della persona talmente ristretto che non potendo da sé né retrocedere né proseguire, fu d’uopo che alcuni davanti per le mani lo tirassero ed altri di dietro per li piedi lo sospingessero. Da questo luogo sin all’ultimo della grotta continua quasi sempre una strada assai scomoda ed in più luoghi anco pericolosa; e per vedersi sotto, ove la persona cammina, diversi trabocchi, conviene ora con ogni celerità saltare da un massiccio all’altro, per l’estremità delli sopradetti dirupi, aggrappandoci di più in alcuni luoghi anco con le mani, ora da questo, ora dall’altro lato: ed alle volte, essendo chiusa affatto la strada dalla quantità sovrapposta di grosse masse di sassi, conviene con pericolosi sdrucciolare far salite assai alte e discese molto precipitose.

Quando poi la persona si è avanti inoltrata con il viaggio, non trova la concavità così vasta, e quanto più proseguisce avanti, vede li detti massicci di tartaro o di acqua congelata che siano, più fini e più splendenti de’ primi, per essere questi in luogo più profondo, ove meglio dal freddo vengono raffinati.

Vicino poi alla fine di questa grotta vedesi una parete ripiena tutta dal basso sino alla cima di diversi fogliami ed intagli, che sembrano come artificiali lavori: e quivi ci fermassimo qualche spazio di tempo per vedere cosa veramente curiosa.

Finalmente, arrivati che fussimo alla fine di questa meravigliosa grotta, osservassimo in una lapide a mano dritta essere scritto: Non plus ultra: non potendosi avanti proseguire vedendosi chiusa l’apertura da una gran balza calata: quivi dunque al presente giorno termina detta concavità, quale riducesi in figura ovata ed in mezzo di essa vedonsi tre o quattro colonne una dall’altra poco spazio davanti.

Ho detto che questa grotta quivi termina al presente giorno, perché alcuni anni sono caminavasi alcuni passi più avanti: si come là dentro ne fu riferito da persona che diverse volte è in essa discesa, ed asserì che nel fine riducevasi come una bocca di pozzo, entro la quale gettando dei sassi dopo un lungo tratto di tempo sentivasi il rimbombo di essi nell’acqua. Ma lasciatemi proseguire, perché dimostrerovvi fra poco che non un pozzo ordinario di acqua, ma bensì un lago è sotto il pavimento di questa grotta ove di presente ci tratteniamo.

Noi dunque, fermatici nel fine di essa per prendere alquanto di respiro e per meglio osservare il tutto, stimassimo bene, prima di ritornare indietro, vedere se quivi mancava alcuno di noi, per il che fattane diligenza ci accorgessimo esser solo 12 di numero oveché 14 esser dovevamo, ed il mancamento era di due giovani serventi.

Questo accidente causò in tutti apprensione e disturbo non ordinario; considerando noi il numero dei trabocchi e precipizi di questo luogo sotterraneo, dubitavamo che quelli troppo curiosamente inoltratisi in luogo pericoloso non avessero pagato il fio della loro temerità. Quivi fermatici tutti, eccettuatone uno che ritornò addietro per cercare li sopraddetti giovani, risolvessimo, in tempo che questi qual altro Diogene con la lanterna in mano hominem quaerit, (cerca l’uomo) ad imitazione degli altri scrivere in questa prospettiva li nostri nomi con il giorno e il mese nel quale in detto luogo penetrassimo, tanto più che vi erano notate persone di più luoghi e di Fabriano non vi era scritto alcuno, non ostante che la grotta possi dirsi situata nel territorio di esso. Salito dunque uno di noi sopra detta colonnata, fece nel mezzo alla prospettiva la iscrizione sotto li 28 luglio 1670, quale iscrizione, andandovi alcuno, la troverà vicino a quella dal Sig. Conte Prospero della Genga sotto il 1667, e questa è la più moderna che in detto luogo si legga, avvengaché la più antica vedesi fatta da 116 (si ricordi che l’autore scriverà nel 1671) anni, essendo sotto il 1555 (questa data è ricordata anche nella monografia dell’on. Miliani) e dopo aver ancor noi compita la nostra iscrizione, ci fermassimo quivi un istante per attendere il ritorno di quello si mise a cercare li giovani smarriti, ed arrivato che fu non seppe darci alcuna nuova, asserendo che, dopo averli cercati per 200 passi addietro, e chiamabili con voce si alta che per tutta la concavità rimbombava, non solo non gli avea ritrovati, ma né tampoco avea sentito rispondersi, e per non smarrirsi ancor esso avea stimato meglio riunirsi con noi, quali spaventati molto più da questa amara novella risolvessimo immediatamente ritornare indietro e cercando per ogni trabocco e precipizio ispiare cautamente ogni luogo più pericoloso.

Ma uditene quello seguisse, poiché asserisco non essere stato tanto il disturbo nel principio dell’accidente, che non sia stata maggiore l’allegrezza partoritaci dall’esito curioso.

Mentre che noi dolenti c’accingemo al ritorno, come ho detto, alzando a caso gli occhi sopra una delle dette colonne, vedemo da un finestrino uscire uno con il lume in mano che così all’improvviso non raffigurando chi fusse, ne diede meraviglia ed apprensione insieme; poscia comparendo immediatamente anco un altro, ci accorgessimo essere li due giovani che mancavano: si che datane lode al Cielo e fattane publica dimostrazione di applauso, essendo interrogati come di lì uscissero, risposero che quasi alla metà della grotta, in tempo che ciascuno di noi emulava il compagno nel rinvenire diverse curiosità, si disunirono, dandogliene motivo un’apertura trovata in un angolo della muraglia, per la quale entrando, e vedendo potersi continuare il viaggio, si diedero senza fare altra riflessione di noi a proseguire avanti bel bello, e così proseguendo eran per detto finestrino usciti.

E questo porge a me motivo di credere, su la considerazione d’aver osservato nel ritorno questi simili finestrini in più luoghi di detta grotta, di credere dico, che la maggior parte di Monte Cucco sia concavo, e perciò vogliono alcuni che il nome proprio e congruo sia di Monte Cavo o Monte Cupo, ma che poi di presente con un nome corrotto Monte Cucco si chiami, soggiungendo in conferma di quanto ho detto che, oltre questa grotta, se ne vedono alcune altre situate in diverse parti del monte (è superfluo notare la falsità di quest’etimologia; Cucco significa semplicemente cima).

Alcuni signori perugini, avendo smarrito la strada, vagarono una giornata intorno la grotta; ed è facile l’ismarrirsi, poiché la persona indotta dalla curiosità a vedere il tutto, gli conviene molte volte deviare dalla strada dritta e discendere in alcuni luoghi più bassi, che formano croci di strada in più luoghi della grotta. Ma se si volesse passare per tutte quelle aperture alquanto anguste che si trovano ivi, bisognerebbe starvi più giorni; e sarebbe più che facile l’ismarrirsi si come successe a questi giovani.

Allora riuniti noi li due giovani che mancavano, si come vi ho detto, ritornassimo unitamente addietro a gran passi, dubitando che la lunga dimora in questo luogo umido fosse per recare danno alla comune salute. Compito dunque che avessimo tutti il ritorno, nel voler principiare la salita su per il canapo, ci accorgessimo dello sproposito fatto in non lasciare alcuno de’ serventi a custodia di esso, il qual fatto siccome sarà stato senza esempio, così anco dee essere senza imitazione; avvenga che riguardando noi su la bocca osservassimo esservi gente, non conosciuta, nelle cui mani stava depositata la nostra vita, mentre era in loro libertà tirare in su il canapo (il che avrebbe potuto fare anche un semplice pastorello se capitato vi fusse) se non altro solo con la semplice intenzione di guadagnarlo. Ma poiché questi tali ne si dichiararono amici e n’esortarono a deporre il concepito sospetto, cominciassimo ad uno ad uno a salire su per la fune, e con maggior fatiga di quella provassimo nel discendere, ci conducessimo finalmente fuori della bocca a rimirare i sospirati raggi del sole.

Ma mi degnino lor Sigg.ri condonare la mia arroganza, che, abusando della loro benignità, non sa per ora dar fine a discorso si tedioso, tutto che curioso si vegga, e compiaciarsi ascoltare quest’ultimo accidente occorso, il quale poco mancando non partorisse pessima conseguenza, stette per amareggiare la comune conversazione ed in pari tempo fare me beffeggiare mille volte per essere stato il promotore del viaggio. Di quell’istesso che sopra dissi rimase in quello forame angusto ristretto, ora parlo; ma se ivi lo vedeste di ridicoloso, ora di spaventevole spettacolo rimiratelo, mentre che questo intraprende su per il canapo la salita e questa fosse fatigosa supponeva al pari della calata, s’accorse verificarsi in se stesso quello cantò il poeta, cioè “Facilis descensus Averni… Sed revocare gradum superasque evadere ad auras – Hoc opus, hic labor est” (lo scender nell’Averno è cosa agevole… Ma tornar poscia a riveder le stelle – Qui la fatica e l’opra consiste” Virgilio); avvenga che nel salire finché trovò le scavette ebbe frequenti occasioni di respiro; ma vicino alla bocca essendo la calata liscia e perpendicolare, mancò aiuto si considerabile a lui necessario, essendo egli corpulento si come dissi di sopra, ed in età avanzato; e convenendo in tal luogo a ciascuno reggersi penzolone e proseguire il viaggio con la sola forza dei polsi, egli s’accorse, da questi disvantaggi oppresso, di non aver lena da poter continuare si faticoso mestiero. Per lo che angoscioso ed affannoso cominciarono a tremolargli li polsi, vedendo se stesso in evidente pericolo di precipitare all’indietro nel profondo: spaventato adunque da questa caduta, che mortale gli sovrastava, diedesi con tremula voce a chiamare soccorso. Ma uditene quello che seguì. Un cortese villano (così permettendolo il Cielo), solo rimasto nel profondo, osservato l’accidente, diedesi immediatamente a salire su per il canapo, per accorrere in tempo a bisogno si urgente; ed arrivato che fu sotto il nostro pericolante, fattosi  quasi piedistallo, somministrò ad esso in luogo delle scavette i propri omeri, acciò in questi posando li piedi, avesse comodità di respiro e facilità di continuare il viaggio: proseguendo adunque il liberatore ora col destro or col sinistro omero a spingerlo in alto e risospingerlo, tanto fa che fuori della boccaa salvamento il conduce.

Ma caso più spaventevole fu quello, che li mesi addietro udii da persona degna di fede successo ad un signore da Sassoferrato, ed accadde in mezzo della salita o calata che fusse; venutogli uno svenimento, fu col modo simile soccorso in sin a tanto che non ritornasse in se stesso, essendo dopo, con l’aiuto di altra fune sotto de’ bracci frapposta, fuori della bocca tirato.

A quali pericoli non volendo soggiacere Mon. Sega (Lello Sega da Bologna, governatore di Fabriano dal 1626 al 1627) non curossi calare al basso della grotta, avvenga che, in tempo che era a questo governo, portatosi in Monte Cucco con animo curioso di vedere questa grotta, osservato che n’ebbe la profondità di questa, augurò agli altri il buon ingresso, ed esso al di fuori restossene su alla bocca.

Ma sento alcuno dirmi che con tanto esaggerare la meraviglia di questa grotta, li pericoli procurati dalla medesima, la profondità della calata, la diversità d’accidenti occorsi, potrei ritenere giusto titolo di vantore, quasi che unitamente co’ miei compagni glorioso presuma aver passato le Colonne di Ercole o la linea equinoziale (il che è falso perché, si come non siamo stati i primi, così non saremo gli ultimi, potendovi andare chi vuole e nel presente discorso non ho mai detto che vi siano pericoli insuperabili; ma bensì mi sono ingegnato raccontarveli tali quali sono): tali pensieri sono lontani dal vero, così anco si gabba chiunque li nutrisca.

Quanto poi alla lunghezza di questa grotta, i miei compagni asseriscono essere di due miglia; ma io, per non mettere la verità in dubbio, dirò essere di un miglio e mezzo (che quando fusse pure, è cosa considerabile) avvenga che la stanchezza del camino, il consumo delle torce, ed il giro del Sole, orologgio infallibile, diedero indizio manifesto aver noi dimorato dentro di essa per lo spazio di cinque o sei ore.

Lor Sigg.ri però, mentre hanno inteso essere in detta Grotta camere, sale, piazze, prospettive, teatri, guglie, colonne, depositi, statue, fogliami, intagli, mascheroni ed altro, concepiscano le sopraddette cose nell’idea, come semplici sbrozzi; poiché là dentro non vi è stato il Bernino ad intraprendere l’officio di architetto né di scultore.

E questo è quanto posso dire di questo monte, grande e per le meraviglie ch’entro il suo seno ritiene e per la vastità del sito che occupa, facendone di ciò fede il numero veramente straordinario del gregge che al pascolo di quelle spaziose praterie vien guidato da truppe di pastori, parte de’ quali con sonore zampogne, ed altri con accenti rusticali fanno sentire a’ passeggeri, benché rustica e boschereccia, assai dilettevole e concertata armonia.

Ma tralasciando di scrivere di cose simili, che sembrano di poco rilievo o da medico oratore prodotte, quando solo vi dicessi generarsi in questo molte semplici (Erbe medicinali) di gran valore, direi pur qual cosa di esso; quando poi vi soggiungessi che dal seno di Monte Cucco n’escono sette fiumi, direi pur gran cose del medesimo. Così è SS.ri; sette fiumane escono dal seno di Monte Cucco: né pensino che io con spropositata amplificazione abbia dato titolo di fiume a ruscelli, poiché del numero di questi non intesi discorrervi: bastava il dirvi che pochi mesi sono mi fu data una lunga nota solo delle fonti che in diverse parti del monte scaturire si vedono. Non voglio stancarvi in lungo dimostrandovi ove abbiano origine, poiché vedonsi giornalmente coll’occhi, ed ove vadano a congiungersi li detti fiumi, vi dirò solo che quattro di essi rendono orgoglioso il Sentino e tre fanno terribile il Chiaso (Il Chiascio); quello all’Adriatico, questo al Mediterraneo vassene a render tributo;  ed ecco verificato quanto dissi nel principio del discorso che Monte Cucco all’uno ed all’altro mare le sue acque tributa.

Or chiudo il mio dire, offerendo la presente composizione a chi vadi entro acciò possi autenticarla veridica, o correggerla trovandola alterata; e poiché può essere che io, avendo detto mari e monti di questa grotta, sia in effetto “ridiculus mus” (ridicolo topolino, allusione alla nota favola), se volete più distinto ragguaglio, “ite et videte” (Andate e vedete).

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